Il titolo, distorsione altruistica della immortale opera di Asimov, avrà un suo senso se vi porrete le stesse domande, ma soprattutto se vi darete le medesime mie risposte, nel corso della lettura a cui siete approdati.

Il che, ad onor del vero, potrebbe non deporre a vostro favore.

Forse è meglio che vi sediate e vi mettiate comodi, datemi retta. Sappiate che sto per chiedervi di accettare l’idea che il contenuto informativo che state per sobbarcarvi non durerà lo spazio di un Tik-Tok, di un tutorial Youtube o (che Dio mi salvi dalla vostra disapprovazione) di una storia Instagram.

Andiamo con ordine, miei pazienti amici. Sì, voi, perché tutti gli altri avranno già fatto zapping. Peace and Love.

Che cosa può essere oggi, anno domini 2021, la Robotica?

Cominciamo col dire cosa NON è Robotica. Ci aiuta Silvia Rossi, ricercatrice dell’Università Federico II di Napoli, presso il Dipartimento di Ingegneria Elettrica: “Alexa non è un robot”.

Questa deflagrante affermazione è stata pronunciata durante un webinar dal titolo decisamente attraente “La robotica al servizio delle persone”. L’appuntamento, organizzato il 12 aprile scorso dal vulcanico Alessandro Gaudino, docente del corso di laurea in scienze infermieristiche della facoltà di Medicina dell’Università di Perugia (sede rigorosamente di Terni), coadiuvato dalla bravissima neo-dottoressa Marwa Larafa e con la supervisione del Delegato del Rettore, professor Stefano Brancorsini, ha visto partecipare numerosi esponenti del mondo universitario e post-accademico a livello nazionale.

Ve ne voglio parlare, senza ripercorrere pedissequamente i temi trattati, ma cogliendo alcuni spunti ed alcune speculazioni che mi hanno fatto sobbalzare dal normale processo cognitivo (più o meno atrofizzato dalla didattica a distanza) un buon numero di neuroni di chiara estrazione nerd.

 

Sia chiaro, essere nerd per me è un vanto indelebile, che non attiene al vestirsi al discount di turno o al parlare solo di tecnologia come carbonari del XXI secolo, né tantomeno all’apparire talmente pallido che in confronto il conte Dracula pare uscito da un solarium. Essere nerd, magari in versione 3.0, attiene una sottile ma inestinguibile, indomabile e masochistica passione per tutto ciò che provoca quella vocina interiore “lo voglio fare anche io, … (omissis)!!”. Ed allora, nerd dell’ITT, venite meco e lasciatevi trasportare dai sentimenti e non dal cervello. Se c’è una cosa che non troverete in questo articolo è la teoria della robotica. Quella, semmai, la studieremo insieme.

Torniamo al convegno e, finalmente, a cosa è un robot, oggi.

Ne voglio parlare non perché all’ITT ci occupiamo del tema, chi può negarlo, anzi vi rimando ad un precedente articolo apparso su questi schermi proprio per erudirvi sulle attività che volontariamente sottintenderò (Edo e NAO all’ITT)… ma piuttosto perché per noi la Robotica con la r maiuscola non è spostare oggetti o programmare a priori piattaforme hardware con qualche centinaio di linee di codice.

È  vita.

Capisco il disappunto, il sopracciglio alzato da parte di qualcuno ed anche lo smarrimento. “Come vita?!? Ma che dice…?”.

A giudicare dalla quantità di transistor, di silicio e di rame… in effetti… mi verrebbe da darvi ragione. E invece no, “manco pe gnente”!! (Scusatemi, sono poliglotta dalla nascita e a volte mi scappa lo slang…).

Facciamo un po’ di storia. Dai su, poca, tipo micro-Bignami (compito per casa: googolare per capire cos’era un Bignami negli anni ‘80-’90).

Il primo robot si può far risalire a Leonardo da Vinci, dalle parti del 1495…. “quasi 1500…” (questa citazione cinematografica la capiranno in tre, ahimè). Trattavasi di un automa cavaliere che, probabilmente discendente dagli studi dell’Uomo vitruviano, eseguiva alcune azioni umane elementari.

Successivamente gli inventori delle varie epoche disseminarono con esempi di macchine antropomorfe più o meno sensate il firmamento della storia dell’automazione: il suonatore di flauto di Jacques di Vaucanson (1738), l’uomo elettrico di Luis Seranens (1885), le vaticinazioni letterarie da “Frankenstein” di Mary Shelley ad “Abissi d’acciaio” di Isaac Asimov, le iperboli cinematografiche tipo Guerre Stellari, Blade Runner e Terminator.

In tutti questi esempi c’è un leitmotiv, un filo conduttore: l’emulazione dell’uomo nella sua forma, nelle sue dinamiche sociali, nelle sue vastità e nelle sue miserie. Nella sua vita.

Sì, avete ragione, il novanta per cento delle immagini che ci giungono riguardanti i robot ci descrivono una catena di montaggio, un’applicazione industriale, un rover marziano, un braccio semovente che coadiuva l’azione del suo inventore. Ma non facciamoci trarre in inganno, non limitiamo alle funzioni grette e meccaniche ciò che la scienza riesce oggi ad infondere alla materia inerte. Quasi come un afflato di creazione, definibile divino in quanto figlio della volontà superiore del cosmo di dotarci di intelligenza, l’uomo oggi riesce a trasmettere ai robot la Scintilla della vita. Non della creatività, della organicità dei tessuti, non della riproduzione cellulare, non della nascita, crescita e morte di un esemplare, non tutto ciò. Non ancora, quantomeno.

Ma l’empatia, quella, sì. L’intelligenza, artificiale, quella sì. Di questo vorrei parlare oggi, ai miei pazienti(ssimi) amici: della Scintilla.

Nel convegno virtuale di cui sopra si è parlato di servizi alle persone, offerto e realizzato da automi.

Facciamo alcuni esempi: in campo sanitario l’assistenza ai malati infermi, alle persone affette da patologie degenerative del sistema nervoso, ai soggetti autistici, ai malati di Covid, alla riabilitazione fisica, alle protesi attive, alla teleassistenza, alla telemedicina, alla interazione con bambini fragili o in condizioni di stress emotivo.

E sapete cosa è emerso, ad un occhio attento, dagli interventi dei ricercatori dell’Istituto Italiano di Tecnologia, il dott. Michele Colledanchise e la dott.ssa Maria Fossati?

Empatia, assistenza umanoide agli uomini, l’esigenza deontologica di rendere la Scienza utile alle esigenze delle persone meno fortunate. Solidarietà tecnologica, insomma.

 

Già: un robot che, nelle più variegate forme, riesce a dare soccorso, aiuto, soluzioni, spinta, animo, passione, sorrisi, serenità, battito. Non ferraglia, non elettroni in circolo, non bit e led sfavillanti, non freddezza. Ma Amore.

Sì, perché se una macchina, brutta quanto volete, può far tornare a sorridere una nonnina malata di Alzheimer, un bambino autistico autolesionista, una persona ipovedente, un malato isolato dal modo, be’…. allora non chiamatela più robotica, ma metteteci una maiuscola! E, siatene certi, si può essere fieri di poter dare un contributo a questa Robotica.

Ancora: il dottor Mancin dell’Università di Padova, ingegnere, che si definisce “informatico pediatrico”, ci porta nel mondo delle relazioni tra bambini e robot. Ed ecco, in pochi istanti ti trovi davanti ad una serie di progetti che utilizzano degli umanoidi impegnati in uno dei compiti più complessi sulla faccia della Terra: sviluppare un rapporto con i cuccioli di uomo, diffidenti e trasparenti per definizione. Come riuscirci se non progettando, realizzando e programmando i robot con tutta l’umanità di cui un Ingegnere è capace? Non basta fare un oggetto. Non basta dargli il movimento o una voce sintetizzata, due occhi blu che blinkano o una manina fredda di plastica. Nemmeno per sogno.

Ci vuole calore umano, gentilezza, riservatezza (e molto altro ancora) per entrare nelle grazie di un bambino. Ci vuole intelligenza per dire, tacere, gridare o sussurrare. Ci vuole enfasi e ci vuole leggerezza. Ci vuole una cognizione degli spazi e delle reazioni. Siamo all’anno zero probabilmente, ma a me non interessa. A me piace pensare che quello che un nerd come me può sentire è il battito di quei piccoli cuoricini che reagiscono, che escono dalla bolla di vetro in cui si chiudono, che sentono la loro malattia sciogliersi, che vivono la loro vita grazie ad un compagno di giochi. Ad un compagno che ha una batteria da qualche parte, che pulsa tanto quanto loro.

Come si può dotare un robot della Scintilla? Come dovremmo immaginare la nostra disciplina in futuro? Probabilmente facendo uso sempre più intensivo dell’Intelligenza Artificiale e della tecnologia dei materiali a base organica. Probabilmente dotando l’hardware di componenti sempre più sensibili e ricettivi ed il software di routine di elaborazioni sempre più dettagliate e puntuali.

Ma non solo.

Quello che abbiamo visto, durante il webinar, non è stato semplicemente e solo tecnologia sublimata dalle teste pensanti e dai budget di investimento a sei zeri. C’è stato anche quel “quid” che noi italiani dovremmo brevettare ed esportare nell’universo intero.

C’è stata la genialità del fare cose straordinarie con mezzi ordinari.

Un progetto denominato ufficialmente LHF Connect (da Low Hanging Fruits: “frutti” facilmente raggiungibili), si è posto l’obiettivo di realizzare in brevissimo tempo un apparato robotizzato che mettesse in contatto le persone affette da Covid, isolate in ospedale, con le persone care. L’idea sarebbe semplice, se non fosse che le restrizioni dei protocolli sanitari impongono l’assenza di personale ospedaliero, nessuna interazione fisica con il dispositivo e mille altri vincoli… ed allora il Genio Italico emerge.

Si prende un robot aspirapolvere di quelli che roteano nelle case delle nostre città e che sembrano cagnolini discoidali fissati con la polvere come la Sciura Maria, si prende un cavalletto da macchina fotografica, un tablet con videocamera e microfono potenziato, del nastro biadesivo, un team di ingegneri determinati come un mucchio di formiche che trovano un tozzo di pane fresco e… si aggiunge la Scintilla. Mescolare a temperatura laboratorio per circa due settimane ed ecco un prototipo che viene impiegato negli ospedali di mezzo mondo. La dottoressa Fossati lo chiama Frankestein, perché in effetti è tutto tranne che un Adone, ma a ben guardare i visi delle persone che sperimentano l’LHF in un ospedale di Pisa, più che ad un mostro vien da pensare ad un miracolo di Apollo, dio della scienza, che illumina come un sole l’intelletto, che non si stanca mai di raggiungere la sua Dafne.

E ci si emoziona anche ad assistere ad un webinar sulla Robotica, ragazzi miei. Ebbene sì.

Ora vorrei chiedere scusa a chi si è sciroppato tutto l’articolo alla ricerca di una formula, di un enunciato, di un grafico. No, piuttosto vorrei lasciarvi con alcuni dogmi immortali: le tre Leggi della Robotica, che a leggerle ancora oggi, dopo che il nostro amico Isaac le ha scolpite nel futuro negli anni quaranta, si scorge quello che proprio oggi volevo significarvi: l’Uomo nel Robot e viceversa.

  1. Un Robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno.
  2. Un Robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non vadano in contrasto alla Prima Legge.
  3. Un Robot deve proteggere la propria esistenza, purché la salvaguardia di essa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.

Arrivato a questo punto vi ringrazio della compagnia che mi avete tenuto, vi lascio alle vostre domande e alle conseguenti risposte e vi dico semplicemente che, se anche uno solo di voi da oggi guarderà un automa con occhi diversi, se cercherà di portare un po’ della sua anima in un artefatto umanoide nel suo percorso di studi o di lavoro, allora vorrà dire che partecipare ad un webinar nel 2021, in piena pandemia e semi-isolamento, ma soprattutto volervelo anche raccontare con rispetto e passione, avrà avuto un senso.

Che sia un futuro pieno di Vita, per Noi e per i Robot.

Di: Prof. Andrea Brozzetti

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