Cos’è questa maledetta sensazione che ci invade e ci porta sempre a riflettere sulle cose negative?
Con questa sensazione conviviamo fin dalla nascita, ma con l’età essa cambia forma.
Quando siamo bambini, il dolore lo sperimentiamo nei primi “No” dei nostri genitori.
“Mamma, papà, voglio prendere questa!” e la risposta secca “No” ci arriva dritta sul petto, come una freccia inferocita che colpisce un bersaglio: la circolazione sanguigna si congela, il nostro entusiasmo svanisce, lasciando spazio al dolore o, nei casi estremi, all’odio.
Oppure, quando siamo nel periodo del “giovane fanciullino”, il dolore ci travolge dopo una semplice caduta dalla bicicletta.
Questi sono due esempi di dolore, completamente differenti e, in entrambi i casi, ci conviviamo.
Il dolore psicologico è quello che più ci ferisce, quello che può uccidere interiormente una persona ed è difficile da accettare.
Il “No” che ha ricevuto il bambino, che si annida dentro di noi, ha suscitato riflessioni e ci ha portato a pensare cose che ora, da persone adulte, consideriamo inimmaginabili.
Mi spiego meglio: ognuno di noi, dopo quella risposta negativa, si è chiesto: “I miei non mi vogliono più?” e in quel breve istante, il cuore si è scombussolato, portandoci a versare lacrime.
Ma quelle lacrime non sono servite a ottenere ciò che desideravamo e, nella maggior parte dei casi, ce ne dimentichiamo, tornando alla normalità.
Purtroppo, però, questo non avviene quando iniziamo a maturare.
Il “No” in alcune situazioni provoca paura e, di conseguenza, ci spinge a isolarci dalla società.
Ci fa riflettere sul perché “siamo sbagliati” e questo è uno dei limiti della nostra psiche.
Bisogna capire che quel “No” in alcuni casi serve a crescere, a fermarsi e a riflettere.
Un “No” da una persona cara può essere utile, perché cerca di farci capire che dobbiamo rallentare perché siamo in un mondo sempre più frenetico e incontrollato.
Ma non è su questo che voglio soffermarmi.
Il dolore è una sensazione che odiamo, ma allo stesso tempo accettiamo e con la quale conviviamo, perché cerchiamo comunque di andare avanti.
Il dolore psicologico più grande è quello che provano i genitori che perdono la loro creatura, quella che fino a quel momento avevano protetto e custodito, lontano dalle grinfie di una società troppo crudele.
Ormai quei genitori non potranno più vedere il sorriso del loro figlio e ancora una volta il mondo è stato crudele con loro.
Lo stesso dolore lo proviamo quando perdiamo una persona cara: un momento prima stiamo ridendo e scherzando e un attimo dopo piangiamo perché quella persona non sarà più al nostro fianco.
Perché conviviamo con questo dolore?
Perché l’apice del dolore ci ha graffiato e segnato per sempre, e non ci resta altro da fare che convivere con esso, perché non possiamo cambiare né il passato, né il presente, né il futuro.
Tutto questo è stato segnato dal nostro “fato”.
Il tempo non guarisce il dolore, ma ci abitua a convivere con le nostre ferite emotive.
Un esempio che illustra bene questo concetto è un’opera di Stefan Visan, un artista che realizza delle creazioni uniche ed originali: l’opera di cui parlo rappresenta degli aghi che trafiggono una candela.
Con il passare del tempo, e con la candela accesa, gli aghi si piegano e si adagiano sulla cera sciolta.
Questo spiega come il dolore provocato da un trauma, pur perdendo di intensità, resta parte integrante della nostra psiche e inconsciamente influenza il nostro comportamento.
Se il dolore è grande, ci può portare a identificarci completamente con esso, isolandoci dal resto del mondo e chiudendoci nel nostro guscio.
In momenti come questi non esistono parole che riescono ad alleviarlo, ma è la persona stessa che deve cercare una chiave per riuscire a conviverci.
Klevin Kasmi, 5ACEC